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Scrivere del Palazzo Cappelleri, inevitabilmente porta a informare della famiglia proprietaria che, nel corso dei secoli, forse piĂą delle altre, ha segnato la storia civile, economica, sociale e politica di Roccella.Â
Le prime notizie documentate che gli archivi ci consegnano risalgono alla fine del 1600. I Cappelleri rispecchiano quella che era la tendenza del tempo, un po’ ovunque in Calabria, di strutturare la famiglia su principi rigidi che non permettevano dinamicitĂ decisionale sul ruolo di ciascuno nel suo seno. Ad esempio, in ogni generazione troviamo almeno un ecclesiastico in tutte le famiglie primarie roccellesi. Di questo fenomeno diffuso, qualcuno precisava:Â
“Gli ecclesiastici di origine borghese appartenevano a famiglie di proprietari o di professionisti, ricche di prestigio locale. Spesso erano avviati al sacerdozio per serbare integro – secondo un’antica consuetudine – nelle mani di un solo figlio l’asse patrimoniale costituito con grave fatica nel tempo: era, del resto, comune trovare nelle famiglie benestanti anche piĂą di un religioso o di una religiosa e ci spiega, in parte, la moltitudine di ecclesiastici che pullulavano in ogni provincia”.
Come primo bisognava mantenere prospero il cespite familiare e preservare la discendenza. L’estinzione del casato, paradossalmente, era da ricercare in seno alla secolare e rigida strutturazione familiare.Â
Analizzando testamenti e atti dei “capitoli matrimoniali”, rogati da notai nei secoli scorsi, si possono ricavare informazioni che ci consegnano testimonianze sull’organizzazione familiare basata su modelli inflessibili, che stabilivano presupposti di tipo economico e modelli di vita, usi, tradizioni ecc. La potenza di una famiglia veniva sancita dall’entità del suo cumulo dei beni mobili e immobili, quindi non era consentita alcuna frammentazione dell’intero patrimonio, semmai tutti i suoi membri dovevano concorrere per accrescerlo. Questo era un tipico modello di famiglia che vanno dal XV al XIX secolo.
Inoltre, era sentita la necessità di conservare l’unitarietà della ricchezza legata al proprio cognome convinti di assicurare per lungo tempo prestigio e valore storico. In questo schema di famiglia, tipico dell’aristocrazia napoletana e meridionale, i figli maschi, e tra questi i primogeniti, erano i principali beneficiari dei testamenti, sia per la conservazione piena del lotto patrimoniale ereditario e sia per la garanzia del prosieguo del cognome del padre, come detto. Una scelta intelligente era quella di indirizzare uno o più figli a prendere i voti ecclesiali. Tale scorciatoia aveva una sua giustificazione puramente tecnica e vantaggiosa per la famiglia. Un sacerdote che vive secondo i precetti della religione cristiana al servizio della Chiesa, non svolge alcun lavoro remunerativo, il che, per la sua ammissione all’ordine ecclesiale necessitava dalla famiglia una donazione per ascendere allo Stato Ecclesiastico e per mantenersi. Questa era la formula riportata dai rogiti notarili e trascritta negli archivi vescovili. Ragion per cui, tale donazione, perlopiù terreni, non veniva tassata per consentire al religioso, con il reddito, di condurre una vita dignitosa del suo stato e al servizio della comunità .
In questa corrente di pensiero sull’assetto della famiglia, i Cappelleri ci stavano in pieno.Â
Troviamo appunto D. Domenico Cappelleri, che, tra gli altri beni, risulta agli inizi del 1800, proprietario del palazzo formato allora da cinque camere e una cucina. D. Domenico, avviato a vestire la tunica, per i motivi detti sopra, era attratto dalla politica, tant’è che parteggiò per la Repubblica Napoletana del 1799. Era un massone che teneva i contatti con altri adepti del circondario.Â
Finita in modo inglorioso quella pagina di storia, si diede inizio alla repressione, ragion per cui si diede alla macchia. Da fuggiasco, fu arrestato nella zona di Crotone. Gli furono sequestrati tutti i beni, palazzo compreso. Passò qualche anno prima che la famiglia potesse riavere le sue proprietĂ .Â
Dopo la sua morte avvenuta il 28 marzo 1835 a Roccella, subentrò il fratello D. Nicola nella gestione dei beni della famiglia.Â
La Famiglia Cappelleri segnò in modo profondo la vita amministrativa di Roccella, tra D. Nicola e suo nipote Giuseppe Maria, nel tempo, occuparono la poltrona di Sindaco per almeno un ventennio. Non persero mai di vista quella che era la prerogativa principale della famiglia: gli affari. L’intraprendenza imprenditoriale li portò a produrre ed esportare vino, prodotto dei loro vigneti con lo slogan “Vigneti Cappelleri contrada Romanò Roccella Jonica”, e, soprattutto, impiantarono un pastificio in località Giardini, conosciuto come “Pastificio Margherita”, in onore della moglie di D. Vincenzo, D. Margherita Genoese Zerbi di Reggio Calabria.
Per incrementare gli affari con la loro laboriosità imprenditoriale, nel 1888 acquistarono il palazzo Di Bianco, lato Caulonia di piazza S. Vittorio. L’obiettivo era rendere più comoda l’attività di commercio dei loro prodotti, utilizzando lo scalo merci della ferrovia, attivo da qualche decennio.
Il palazzo Cappelleri ospitò la notte tra il 22 e 23 Settembre 1847, Pietro Mazzone, uno dei cinque Martiri di Gerace. Trascorse tra le sue mura le ultime ore di uomo libero assieme al suo fraterno amico D. Giulio Cappelleri, che in quei giorni era il Capo degli Urbani di Roccella. Il giorno dopo, accompagnato da due urbani, Pietro Mazzone, a cavallo, si diresse verso Gerace per consegnarsi alle autoritĂ , inseguito da un mandato di arresto e da una taglia che pendeva sulla sua testa. Fu fucilato a Gerace, assieme a quattro suoi compagni, il 2 Ottobre 1847.Â
L’estinzione della potente famiglia Cappelleri, avvenne con Giuseppe Maria Cappelleri, che aveva sposato una baronessa De Blasio di Palizzi, ma non ebbe figli. La secolare e rigida organizzazione familiare fu impietosa con quelle famiglie che conservavano ancora l’antico sistema per affermare il proprio potere nella comunità , attraverso l’intestazione dei beni nelle mani di una sola persona. I Cappelleri, i Mazzone, e altre furono le vittime destinate, prigionieri della loro fedeltà a quel sistema di potere che segnò inesorabilmente l’estinzione.
Oggi il Palazzo, completamente ristrutturato, è di proprietà della famiglia Giannitti.